Gli anni della seconda guerra mondiale lasciarono anche nell’economia legnanese segni profondi. Gli avvenimenti bellici avevano fortunatamente risparmiato l’apparato produttivo locale, altrove segnato dai bombardamenti, dalle forzate strategie per orientare la produzione ordinaria in produzione al servizio dell’esercito e dalle razzie tedesche. Le aziende locali erano uscite dal conflitto in una situazione non certo florida, eppure suscettibile di una necessaria conversione in vista della ‘ricostruzione’ e delle richieste del mercato interno ed estero in tempo di pace.
Fra il 1940 e il 1945 si erano accentuate le caratteristiche dell’economia dell’area: l’agricoltura, che nel resto del Paese costituiva ancora negli anni ‘40 l’attività principale, a Legnano era relegata – già dalla Grande Guerra – ad attività marginale. Per quanto riguardava l’industria, la prevalenza dei settori tessile e meccanico non era stata scalfita, così come rimaneva costante la concentrazione di grandi imprese. Terziario e commerci avevano raggiunto discreti risultati in una realtà urbana popolosa e con un elevato tasso di persone attive.
Già al censimento del 1936[1], su 32.355 abitanti, i lavoratori assunti in città erano 17.024 (un terzo dei quali non residenti, cioè pendolari); ben 13.584 erano impiegati nel settore secondario. Tra i ‘giganti’ dell’industria svettava, nella stessa data, anzitutto la Franco Tosi, che aveva portato i circa 3.200 dipendenti della metà degli anni Trenta ai 4.000 del periodo bellico. Guidata fino al 1940 da Umberto Carlini, quindi da Mario Arreghini, la Tosi aveva proseguito la produzione di turbine a vapore e di caldaie, incrementando la realizzazione di motori diesel per propulsione navale grazie alle commesse statali. Negli stabilimenti posti lungo la ferrovia erano stati realizzati in gran numero anche compressori, turbine idrauliche, motrici e fusioni di ogni genere.
Il Cotonificio Cantoni, con 2.700 dipendenti in città (il gruppo contava quattro stabilimenti), era la più grande azienda tessile della zona e uno dei più importanti gruppi cotonieri italiani. Alle tradizionali produzioni prebelliche (filati, tessuti per abbigliamento e biancheria per la casa), si erano aggiunte notevoli commesse militari, tali da far sostanzialmente mantenere negli anni più difficili le posizioni commerciali e occupazionali della fine degli anni Trenta. La medesima analisi può essere svolta, pur con qualche distinzione, per il gruppo De Angeli Frua (circa 1.900 lavoratori, un migliaio dei quali nel grande stabilimento prospiciente Corso Vittorio Emanuele, ora Corso Italia, detto il ‘Castellaccio’; produzione di tessuti stampati) e per il Cotonificio Dell’Acqua (1.400 occupati a Legnano, su un totale di oltre 4.000 addetti; velluti, rasi, tessuti in cotone, rayon e canapa). Seguivano a ruota altre tre ditte tessili, fra le quali la Agosti (800 dipendenti), la Manifattura di Legnano e la Tessitura Bernocchi (600).
Durante la guerra le aziende avevano dovuto per lunghi anni fare i conti con l’assenza di molti giovani lavoratori partiti per il fronte (e molti di essi non più tornati), con la scarsità di materie prime e semilavorati, con l’interruzione periodica della fornitura di energia elettrica, nonché con le difficoltà generali legate ai mercati – interno ed estero -, ai trasporti e alla disponibilità di una serie di servizi accessori alla produzione.
Alle grandi aziende di cui s’è detto, si affiancavano a Legnano una miriade di altre imprese di dimensioni piccole o medie, che talvolta costituivano l’indotto delle principali, mentre in tanti altri casi esse si erano ritagliate spazi propri di produzione e di mercato. Le società maggiori erano state costituite per lo più in forma di ‘anonima’, per poi evolversi verso la società di capitali; le ditte minori erano spesso società di persone o in accomandita e facevano riferimento soprattutto al capitale familiare o – più raramente – al credito bancario.
Il tessuto produttivo cittadino contava quindi all’indomani della guerra, oltre ai ‘giganti’, una quarantina di stabilimenti meccanici, una ventina di fonderie, numerosissime imprese e laboratori tessili, comprendenti filature, tessiture, stamperie e tintorie. Per la meccanica occorre ricordare almeno la ditta Mario Pensotti (costruzione di macchine utensili per la lavorazione del ferro; fusioni di ghisa conto terzi), la ‘Comes’ Ercole Comerio (con sede a Busto Arsizio e subentrata nel 1936 alla Fratelli Bombaglio; macchine tessili e per la gomma) e le officine Gianazza, Crugnola, Fontana, Ghioldi, Andrea Pensotti, Raimondi, Rabuffetti. Tra le fonderie si possono citare la Marcati, la Fratelli Oldrini, la Carroccio, la Sociale e la Legnanese. Non meno variegata era la presenza del tessile, con opifici di alcune decine di operai, operanti talvolta grazie al legame stabilito con altre unità produttive di Legnano e della zona: in questo caso si possono ricordare i cotonifici dell’area di Busto Arsizio e Gallarate, l’azienda tessile Bassetti di Rescaldina, il pluriforme comparto calzaturiero della limitrofa zona di Parabiago e Cerro Maggiore.
Dopo la Liberazione, ristabilito in Italia il potere democratico e con un paese impegnato a risollevarsi dalla guerra e dal precedente ventennio di regime fascista, l’economia dovette fare i conti con numerose questioni. Con determinazione, l’Italia, inserita in un mutato contesto internazionale, cercò di rimediare ai danni materiali causati dai bombardamenti, agli scompensi tra la domanda e l’offerta di generi di consumo, all’instabilità monetaria e all’inflazione e alle accresciute differenze socio-economiche tra le diverse aree della penisola. In questo periodo si registrarono la costituzione di organismi internazionali volti alla stessa stabilità monetaria e al sostegno per la ricostruzione (Fondo Monetario Internazionale, Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo), un crescente intervento dello Stato nell’economia, sia nel senso produttivo che in quello regolativo e l’avvio del cosiddetto ‘Piano Marshall’ (European Recovery Program), con il quale gli Stati Uniti dal 1948 fornirono aiuti agli Stati europei, comprendenti concessioni di prestiti e forniture gratuite di macchinari e merci a beneficio soprattutto dei settori siderurgico, meccanico, elettrico e chimico[2].
L’emergenza post-bellica non durò più di tre-quattro anni: già alla fine degli anni Quaranta i livelli produttivi raggiunsero i livelli dell’anteguerra, anche se gli standard di vita e le condizioni dei lavoratori in genere si mantenevano sempre molto difficili. Il paese si stava però rapidamente trasformando: tra i mutamenti emblematici (rilevati dal Censimento generale della popolazione del 1951) deve essere sottolineata la differente distribuzione degli occupati tra campagna e fabbrica, che mostra il graduale passaggio dell’economia italiana di quei tempi dalla preminenza dell’agricoltura al dominio incontrastato dell’industria.
In prima fila nel ‘trascinare’ la ripresa a Legnano va annoverata la Franco Tosi, entro la quale, il 16 luglio 1945, venne costituito un provvisorio Consiglio di Gestione, formato dalla presidenza, dalla direzione e dai rappresentanti dei lavoratori (circa 3.500 operai e 750 impiegati), che si affiancò al CLN aziendale. Secondo lo storico Pietro Macchione, cui si deve lo studio più documentato sulla storia aziendale[3], la rapida e felice ripresa dell’azienda meccanica nel dopoguerra si dovette, oltre che ai «meriti degli uomini», anche ad «una serie di fortunate circostanze»: il fatto che gli stabilimenti fossero stati risparmiati dalle distruzioni della guerra; il relativo interesse militare per le produzioni Tosi, con la possibilità di mantenere costanti i livelli produttivi e occupazionali; il ritrovato successo di alcuni macchinari titpici di questa ditta, soprattutto nel campo della produzione energetica; una certa «pace sindacale», almeno fino ai primi anni Cinquanta. Così nella relazione del Consiglio di amministrazione del 26 settembre 1947 si legge:
«L’aumento degli ordini ci ha permesso di equilibrare in questi stabilimenti [di Legnano] il carico della mano d’opera allo svolgimento del lavoro; la tranquillità di avere tale lavoro assicurato per un periodo di tempo abbastanza lungo ha influito favorevolmente anche sui rendimenti e noi abbiamo fiducia che il personale tutto non mancherà di intensificare la sua fattiva collaborazione per aiutarci a riportare alla completa e normale attività questa antica e reputata azienda nella quale le sorti degli azionisti sono più che mai intimamente collegate a quelle dei lavoratori»[4].
Già nel 1947 l’azienda provvide ad un sensibile aumento del capitale, a forti investimenti produttivi per rinnovare i macchinari e al rilancio dell’attività dei suoi cantieri navali di Taranto. Di estrema importanza risultò pure la politica delle intese internazionali, sia sul piano dell’acquisizione dei brevetti sia sul versante degli accordi per nuovi ordinativi. La collaborazione con la Westinghouse fu fondamentale per la produzione di turbine a vapore, mentre per le caldaie ci si appoggiò alla Combustion Engineering Superheater. Successivamente, con l’ingresso nella società del gruppo Pesenti, la produzione comprese anche macchine per cementifici su licenza della Kennedy Van Saun; diminuì invece l’interesse per i propulsori marini a vantaggio dei motori diesel, degli impianti di dissalazione e della realizzazione di centrali a cogenerazione montate e avviate da personale Tosi nei cinque continenti.
Anche il settore tessile procedette nel dopoguerra ad uno ‘svecchiamento’ dei processi produttivi, alla ricerca di nuovi prodotti e di mercati inesplorati. Nella prima metà degli anni Quaranta le difficoltà si erano moltiplicate con il blocco delle esportazioni, la riduzione del 30% del mercato dei filati e la gestione pubblica degli approvvigionamenti e delle scorte. Diverse piccole aziende furono costrette a chiudere i battenti, mentre i cotonifici principali, come la Cantoni, accettarono la sfida della concorrenza delle fibre artificiali e delle produzioni asiatiche che cominciava a farsi sentire già all’inizio degli anni Cinquanta.
Proprio il Cotonificio Cantoni poté permettersi di giocare una ‘strategia di gruppo’, sotto la guida sapiente dell’amministratore Carlo Jucker: a Legnano, nel rione Olmina, venne infatti realizzato un moderno reparto di tessitura; ai due impianti termici di Legnano e a quelli di Fiume Chiese (Brescia) e Fiume Serio (Bergamo), si aggiunse, nel 1948, la centrale idroelettrica di Bellano.
«Nel 1949 vengono sostituiti tutti i macchinari dello stabilimento di filatura di Cordenons in Friuli, acquisito per fusione con la Filatura Makò nel 1939. Nello stesso anno viene costruito a Castellanza un nuovo fabbricato per l’installazione di macchinari per il finissaggio, la piegatura e la spedizione dei tessuti candeggiati. Nel 1950 nella tessitura di Canegrate vengono sostituiti tutti i telai, mentre nella tessitura di Legnano vengono installati 624 telai automatici».
Ulteriori innovazioni furono poi introdotte negli anni successivi in ogni unità aziendale, mentre il cotonificio dava ulteriore impulso alla produzione di velluti ed entrava nel campo delle fibre sintetiche[5].
Ma il quadro dell’industria legnanese fin qui tracciato rimarrebbe incompleto se non si facesse almeno un cenno all’eguale slancio ritrovato dalle altre numerose imprese del territorio, sia quelle di grandi dimensioni, sia quelle di più modesta entità. La concentrazione della forza lavoro in una decina di aziende, sia meccaniche che tessili, procedette infatti di pari passo con la vivacità della piccola e media impresa. In tal senso i dati del censimento del 1951 sono particolarmente significativi. Con una popolazione di poco superiore ai 38.000 residenti, Legnano vantava 767 imprese industriali con 25.070 addetti, in buona parte pendolari in entrata. La parte del leone era svolta dalle 321 industrie tessili e del comparto dell’abbigliamento, che davano lavoro a 12.848 persone; seguivano a ruota le 233 industrie metallurgiche e meccaniche, con 9.900 addetti. Assai distanziate, sia per numero di unità produttive che per addetti, erano invece le aziende di trasformazione alimentare, delle costruzioni, del settore chimico-gomma e dei servizi di interesse collettivo (energia, trasporti, comunicazioni).
Il settore meccanico era comunque quello che mostrava il maggior dinamismo:
«Oltre alla Tosi, che tra la fonderia di Via XX Settembre e l’officina [ha] ora 4.800 dipendenti, c’è da rilevare la presenza di iniziative come l’apertura degli stabilimenti della ditta Comerio di Busto con 454 addetti, produttrice di macchine utensili, e, di quella della Bozzi Spa di Milano con 331. Ottimi complessi anche quelli dei Fratelli Gianazza, di G.C. Ranzi e delle Officine Fontana, che producono pompe (150-200 addetti), nonché le Industrie Elettriche Clerici, specializzate nella strumentazione (253 addetti), la fonderia SAFFES (246), mentre la Mario Pensotti [raggiunge] i 387. Interessante, in altro settore, lo sviluppo del Calzaturificio di Legnano (con 145 addetti), mentre le aziende maggiori nel tessile [restano] le ‘antiche’ Cantoni (3.465 addetti), De Angeli Frua (1.504), Dell’Acqua (1.495), Agosti (1.343), Bernocchi (851), Manifattura di Legnano (1.165), Giulini & Ratti (972)»[6].
Altrettanto interessanti le indicazioni che si traggono dai dati censuari riguardo le dimensioni aziendali: le sei aziende con oltre 1.000 addetti avevano un totale di 13.772 occupati (con una media di 2.295 dipendenti ciascuna), pari al 54,9% del totale; invece le 73 imprese con più di 25 dipendenti raggiungevano quota 22.010 addetti (301 dipendenti di media e 87,8% dell’occupazione complessiva). Il rapporto occupati-aziende risultava, nel complesso, pari a 32,7: secondo il Longoni, che ha analizzato con un certo dettaglio i dati ISTAT, il quadro non risulterebbe molto diverso rispetto a quello emerso dai censimenti prebellici. L’incremento occupazionale sarebbe imputabile in buona misura alle aziende di piccole dimensioni, cioè quelle con meno di 25 dipendenti, che nel 1951 (l’ultimo censimento in cui si registrò, a Legnano, un incremento degli addetti all’industria e il prevalere del settore tessile su quello meccanico) erano 694, con 3.060 lavoratori (12,2% del totale) e una media di 4,4 addetti ciascuna[7].
Naturalmente non può essere tralasciato il ruolo svolto dal credito negli anni della ricostruzione. E, in città, l’istituto più importante era certamente la Banca di Legnano, con una consolidata tradizione di raccolta dei risparmi e di sostegno allo sviluppo imprenditoriale. La guerra, nonostante il complessivo rallentamento di ogni attività economica e finanziaria, non aveva portato particolari problemi all’amministrazione della banca di Via Franco Tosi, presente sul territorio cittadino e in diversi paesi dell’Altomilanese con una fondamentale strategia degli investimenti, e quindi dei rischi. Tale area, infatti,
«conosceva il proliferare d’una miriade di piccole e medie unità produttive, molte a conduzione familiare, e operanti in settori molto diversificati tra loro: dal tradizionale campo tessile e metalmeccanico, al conciario, a quello della pelletteria, al cartario, al chimico, a quello della lavorazione del legno. Si trattava del tessuto connettivo ideale per un istituto che aveva costantemente praticato la diversificazione dei rischi e che andava a questo scopo sempre più privilegiando il rapporto con le imprese di piccole dimensioni. Vi era poi un vantaggio di non poco conto: i vari settori avevano un ciclo economico non univoco e, in alcuni casi, addirittura complementare, essendo diversamente sensibili agli umori del mercato interno ed estero e a quelli del reperimento delle materie prime in ambito locale o internazionale».
Questa linea restava una costante delle attività dell’istituto anche nel momento di una più marcata ripresa economica:
«La Banca di Legnano, pur di fronte alla grande effervescenza dell’ambiente produttivo, in particolare del settore tessile gratificato nelle proprie esportazioni dal decrescente valore della lira, e pur nella situazione di poter disporre d’una massa fiduciaria in decisa crescita (tra il 1946 e il 1948 +128% in moneta corrente e +32% in moneta costante) mantenne un comportamento di grande prudenza, astenendosi ‘da ogni e qualsiasi operazione che non apparisse di tutto riposo – come si legge nella Relazione al bilancio del 1948 -, preferendo a facili ma aleatori cespiti di guadagno, il ripartire le proprie disponibilità come meglio è possibile, assecondando anche le richieste della più modesta, ma non meno gradita e affezionata clientela’»[8].
In questo periodo negli ambienti della piccola e media impresa si convenne sulla necessità di dar vita ad una associazione di categoria. Già il 4 maggio 1945 venne istituito un Comitato industriale provvisorio che aveva lo scopo di «prendere e mantenere contatti e accordi circa le varie questioni di interesse collettivo». Nei giorni seguenti si registrarono altre riunioni che portarono, il 13 luglio 1945, alla fondazione dell’Associazione Legnanese dell’Industria (ALI) da parte di venticinque ‘capitani d’azienda’. Subito si evidenziò il ruolo-guida di Mario Pensotti; primo presidente dell’associazione venne invece eletto Pierluigi Ratti, mentre Aldo Palamidese rappresentò, nel Comitato esecutivo, i piccoli industriali. Tra le imprese aderenti si possono ricordare almeno la Società anonima Ercole Comerio, la Società in accomandita Carlo Mocchetti, la Manifattura Tessile Legnanese, diversi calzaturifici, la Giulini & Ratti, la Agosti, le Industrie Elettriche, la Antonio Nova e le Fonderie Colombo. L’intento dell’ALI fu, sin dalle origini, sia di carattere ‘politico sindacale’, sia di fornitura di consulenze e servizi in materia economica, fiscale e commerciale. A Ratti successe nel 1947 Franco Pensotti, che presiedette l’associazione per diversi anni, in un periodo di grande espansione dell’ALI: nel giro di dieci anni, infatti, le ditte aderenti salirono a 319, in una zona comprendente una quindicina di comuni[9].
Nel gennaio 1946 fu invece costituita l’Unione Artigiani di Legnano e zona, con competenza su una decina di comuni. Più tardi fu l’Associazione Artigiani della Provincia di Milano a dar vita ad una sezione locale. Solo il 24 gennaio 1952 nacque invece la Consociazione Artigiana di Legnano e zona, in grado di raccogliere un numero crescente di operatori attivi nei più diversi settori dell’economia (meccanica, tessile, assemblaggi, edilizia, trasporti, servizi diversi) e con imprese di dimensioni fra loro anche molto differenti. Per sondare meglio lo ‘stato di salute’ dell’artigianato in città si può fare riferimento alle notizie riportate, con una certa frequenza, sulla stampa dell’epoca, e in particolare dal settimanale cattolico «Luce». In un articolo apparso nell’immediato dopoguerra si legge:
«Durante la guerra gli artigiani mancarono di materie prime, e per questo taluni dovettero abbandonare la loro attività. Altri tiravano avanti con il comperare alla borsa nera e con quel poco che davano in assegnazione, [che], però, riuscivano soltanto ad avere coloro che correvano a Milano e si erano fatti degli amici negli Uffici dell’artigianato dando mance, così che si videro artigiani con assegnazioni superiori al loro fabbisogno e ne rivendevano l’avanzo al prezzo della borsa nera. […] Nella zona di Legnano, che contava circa millecinquecento tesserati, non arrivava nessun materiale. Bisognava che l’artigiano perdesse tempo e denaro per recarsi a Milano per ritirare, in luoghi, giorni e ore stabilite da loro, quel piccolo quantitativo di materiale che poi doveva provvedere a trasportare a casa».
L’articolo non mancava di annotare le difficoltà materiali cui andava incontro la famiglia dell’artigiano, poco tutelata anche sul piano sanitario e previdenziale. Emergeva quindi la richiesta da parte dell’artigianato locale di una reale capacità gestionale e decisionale rispetto all’associazione provinciale, chiedendo «autonomia» da Milano[10].
Tra i soggetti che contribuirono a scrivere la storia dell’economia e del lavoro a Legnano va annoverato il sindacato: venuto meno il sindacalismo corporativo fascista, prese consistenza anche nelle fabbriche della zona la Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL), sorta con il Patto di Roma del 1944 fra le correnti comunista, cattolica e socialista. Il riferimento alla realtà nazionale del sindacato è importante perché le vicende complessive della CGIL (conflittualità interna tra le diverse correnti; scissione della componente cattolica con la costituzione della Libera CGIL, poi CISL; scissione dell’area socialista e laica, che diede vita alla UIL) comportarono incomprensioni e divisioni, talvolta traumatiche, anche a livello locale. Nella seconda metà degli anni Quaranta il sindacato si occupò soprattutto di raccogliere le istanze dei lavoratori sul piano salariale e della sicurezza in fabbrica, di dar voce al malcontento legato al caro-vita e infine di partecipare ai Consigli di gestione costituiti nelle principali aziende della città. Nel luglio 1946 si svolse il primo convegno di zona della Camera del Lavoro di Legnano: tra i temi affrontati emersero quelli relativi alla contrattazione nazionale per i tessili, alla necessità di rafforzare l’unità sindacale, alla valorizzazione degli stessi Consigli di gestione e alla tutela sindacale delle gestanti. Non mancarono per la verità gli interventi sui temi di politica economica, le testimonianze personali sulle dure condizioni di lavoro e circa il mancato rispetto dei diritti degli operai negli stabilimenti. Aldo Colombo, della FIOM, invece, affrontò in quella circostanza
«il problema delle relazioni tra masse lavoratrici impiegatizie e masse lavoratrici operaie. Afferma che pur essendo vero che gli impiegati abbiano una particolare struttura mentale derivante dall’ambiente in cui essi vivono, è necessario che venga stimolata la reciproca comprensione fra questi due strati sociali affinché venga rafforzata la compattezza di tutte le masse lavoratrici»[11].
In questi anni i lavoratori – organizzati o meno – erano piuttosto reattivi, così che gli scioperi si moltiplicavano per ragioni sindacali (rinnovi dei contratti, orari e condizioni di lavoro, soprattutto nelle fonderie, tutela diritti delle donne) o sociali (rincaro dei prezzi dei generi di consumo). Il sindacato si preoccupava però anche di proporre delle occasioni per preparare gli attivisti sindacali al loro impegno: furono pertanto avviati brevi corsi formativi, si partecipò a comizi o relazioni di sindacalisti milanesi o di docenti universitari a loro vicini, si fece ampio utilizzo della stampa sindacale e di partito. Va in questo senso segnalata l’attività del circolo legnanese delle Associazioni Cristiane dei Lavoratori Italiani (ACLI), l’associazione voluta dalla gerarchia cattolica con lo scopo di tutelare sul piano culturale e spirituale i lavoratori cristiani che, in seguito al citato Patto di Roma, si erano per la prima volta inseriti nel sindacato unitario della CGIL insieme ai compagni di lavoro comunisti e socialisti. Ma come spiegò ai soci legnanesi Luigi Clerici,
«se noi aderiamo all’unità sindacale è perché in essa vediamo un mezzo per il bene dei lavoratori, ma siamo sempre pronti a denunciare tutti i soprusi che altre correnti commettono, gettando scredito sulla unione delle forze sindacali. I veri nemici dell’unità sindacale sono gli scioperi inconsulti e le insulse dimostrazioni di piazza»[12].
A Legnano le ACLI diedero inizio alle proprie attività nell’autunno 1946 con una scuola sindacale inaugurata dal segretario della Camera del Lavoro di Milano Luigi Morelli, che nella circostanza rievocò la figura di Achille Grandi, il fondatore dell’associazione nonché leader indiscusso del sindacalismo ‘bianco’, da poco scomparso. Era presente anche il giovane docente della Cattolica, Mario Romani, che parlò sul tema del Liberalismo economico[13]. A lungo animatore delle ACLI locali fu Aldo Colombo, che svolse anche la funzione di delegato di zona.
I principali ‘laboratori’ dell’esperienza sindacale legnanese fecero capo certamente alle maggiori imprese della città. Il 13 marzo 1948, ad esempio, fu eletta la prima Commissione interna (organismo di rappresentanza dei lavoratori all’interno di un’azienda disciplinato da un accordo nazionale tra Confindustria e CGIL) alla Franco Tosi. Su 4.691 dipendenti aventi diritto di voto, furono ben 4.190 quelli che espressero la propria preferenza. La componente comunista risultò prevalente, mietendo consensi soprattutto fra gli operai, e raccolse nel complesso 1.551 voti; la corrente cristiana si fermò a 841 voti, quella socialista a 730, quella socialdemocratica fu pressoché irrilevante (87 voti). Ma le elezioni erano state precedute da vivaci polemiche soprattutto fra i rappresentanti della corrente comunista e di quella cristiana: anche su questo versante pesavano le vicende nazionali, fra cui la ancora recente estromissione dei social-comunisti dal Governo (maggio 1947) e le imminenti elezioni politiche del 18 aprile, con lo scontro aperto tra DC e Fronte Democratico Popolare, che raggruppava insieme comunisti, socialisti e altre formazioni minori[14].
Questo clima di scontro si accentuò dopo la vittoria democristiana alle elezioni politiche – di cui parleremo più avanti – e l’attentato del 14 luglio successivo ai danni del segretario comunista Palmiro Togliatti. Proprio quest’ultimo episodio costituì la classica goccia che fece traboccare il vaso. Da tempo nel sindacato appariva difficile tenere insieme coloro che, muovendo da una prospettiva marxista e leninista, tendevano a concepire il sindacato come ‘cinghia di trasmissione’ rispetto al partito, e quanti invece esaltavano il ruolo autonomo del sindacato stesso e semmai il suo riferimento ai valori della dottrina sociale della Chiesa. Il giorno dopo l’attentato, il 15 luglio, la componente cristiana della CGIL dichiarò che lo sciopero generale di protesta indetto dal Comitato direttivo era in contrasto con le finalità e le funzioni del sindacato, ma i firmatari di questa dichiarazione vennero dichiarati decaduti dal loro incarico. Il 22 il Consiglio nazionale delle ACLI affermò che l’unità sindacale era ormai stata «annientata» e che la CGIL non esisteva più. Si aprì così una fase transitoria, destinata a portare alla nascita di una nuova confederazione dei lavoratori, durante la quale si procedette anche alla divisione del patrimonio della CGIL. Il 15 settembre un congresso straordinario delle ACLI si pronunciò a favore della nuova organizzazione, che nacque poi ufficialmente il 17 ottobre successivo e assunse il nome di LCGIL (Libera CGIL). Nel corso del 1949 il nuovo sindacato attraversò una fase di consolidamento e di chiarimento interno e programmatico, destinato infine a sfociare, il 1° maggio del 1950, nella fondazione della CISL (Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori), nella quale confluirono anche esponenti socialdemocratici e repubblicani che, usciti a loro volta dalla CGIL, avevano poco tempo prima fondato la FIL (Federazione Italiana del Lavoro). Nello stesso periodo nacque anche la UIL (Unione Italiana del Lavoro), ugualmente costituita in prevalenza da sindacalisti di orientamento socialdemocratico e repubblicano, ma sospettosi verso una possibile egemonia dei cattolici nella CISL. Ovviamente tutte queste vicende alimentarono nuove contrapposizioni e rivalità.
A Legnano, per esempio, quando il 1° dicembre 1949 la CGIL proclamò un nuovo sciopero alla Tosi per motivi salariali, gli 800 lavoratori della Libera CGIL non vi aderirono e si recarono ugualmente sul posto di lavoro. Qui però trovarono i cancelli sbarrati e furono costretti a tornare a casa: l’azienda, registrata l’assenza ingiustificata (perché non derivata da una proclamazione ufficiale di sciopero), li citò in giudizio e chiese il pagamento della giornata lavorativa, tanto che un anno più tardi si aprì addirittura una vertenza davanti alla magistratura proprio riguardo l’accaduto[15].
Si moltiplicavano intanto anche le accuse reciproche di «portare la politica in fabbrica», mentre i cattolici puntavano il dito contro i sindacalisti socialcomunisti, rei – a dir loro – di usare intimidazioni e violenze e di effettuare «spedizioni punitive» all’interno degli stabilimenti (nel caso della Tosi, accusavano, con il complice silenzio della dirigenza aziendale) contro i lavoratori aderenti al sindacato di ispirazione cristiana[16]. Si giunse persino ad una interrogazione parlamentare ai ministri dell’Interno e del Lavoro da parte dell’onorevole Dino Del Bo sulla situazione legnanese:
«Per conoscere – vi si legge – se [i ministri] sono informati dell’anormale situazione che si verifica negli stabilimenti della Franco Tosi di Legnano, dove gli esponenti del Partito Comunista e della CGIL danno luogo a tentativi di sopraffazione e a gesti di intimidazione nei confronti delle maestranze democratiche, violandone il diritto alla libertà di lavoro. E per conoscere se sono informati dell’atteggiamento della direzione della Franco Tosi, la quale consente la più ampia facoltà di propaganda all’azione politica del PCI e della CGIL»[17].
Il ministro dell’Interno, Mario Scelba, rispose al suo collega di partito, confermando la veridicità di questi fatti e accusando la «tolleranza» e il «rilassamento della disciplina» che aveva consentito tale stato di cose. Il ministro – come c’era da aspettarsi – assicurò una costante vigilanza da parte degli organi di polizia[18].
Circa i rapporti sindacali alcune testimonianze contribuiscono a ricostruire l’ambiente, il ‘clima’ e gli atteggiamenti assunti dalle varie parti in causa, anche in rapporto al contesto più ampio e alla vita interna aziendale.
«Quando si parla di lotte sindacali alla Tosi – ricordò in seguito l’allora direttore del personale, Leonardi – non si deve dimenticare lo ‘spirito di famiglia’ che è sempre regnato nella nostra fabbrica. La Franco Tosi è forse l’unica grande azienda dove un tempo, nelle assunzioni, si dava la preferenza ai figli dei dipendenti e dove la professione si tramandava di padre in figlio. Molti operai, pur se di diverso orientamento politico, erano parenti fra loro, o amici di famiglia. Questo significava che in certe occasioni, quando le agitazioni sindacali erano particolarmente vivaci, la loro violenza veniva smorzata da quei rapporti. I legami di parentela e d’amicizia agivano da ‘cuscino antiurto’. Non era facile andare negli uffici o nei reparti a buttar fuori la gente, come avveniva in altre aziende».
Sulle eventuali misure repressive adottate verso le maestranze Leonardi ricorda:
«La Società ha cercato sempre di seguire una politica moderatrice. Tutt’al più, abbiamo dovuto isolare alcune frange troppo vivaci. Sino a quando la controparte sindacale fu una sola, la CGIL, la Direzione trattava con essa, non c’erano altri interlocutori. È anche vero che la CGIL dava spesso ai problemi aziendali un’impostazione più politica che sindacale, avendo tutto l’interesse a politicizzare le maestranze, ma le lotte che conduceva, pur essendo molto dure, non oltrepassavano certi limiti. Poi, nell’agosto del ‘48, subentrò la disgregazione della CGIL e nacque la CISL. È necessario tener conto dei tempi: la CISL era l’anima cattolica del sindacato, una corrente nuova che non aveva ancora presa sulle maestranze. Per attirare proseliti, doveva far vedere ai lavoratori di aver più grinta degli altri; di conseguenza, le sue rivendicazioni furono subito più drastiche e violente di quelle a cui eravamo abituati e dovemmo intervenire più volte cercando di isolarne le frange più irrequiete. A un certo punto sembrava addirittura che la CGIL agisse da moderatrice tra la Direzione e la CISL».
Si confermano, dunque, rapporti tesi tra l’azienda e il sindacato cislino:
«In seno alla CISL vi fu un certo risentimento nei nostri riguardi. Ci accusavano di preferire la CGIL. Non capivano che da parte della Direzione non esistevano preferenze per l’una o l’altra corrente; ciò che volevamo era evitare che si arrivasse a scontri non necessari»[19].
Secondo la stessa testimonianza, il sindacato giocò invece un ruolo positivo su altri versanti:
«Direi che un certo vantaggio ci venne, soprattutto, nel campo dell’infortunistica. Certe volte il sindacato, che teneva dei contatti capillari nei reparti, ci segnalava tempestivamente la presenza di situazioni pericolose che, magari, erano sfuggite alla Direzione. Non che abbia dovuto costringerci a fare ciò che la Direzione non voleva fare, ma i suoi ragguagli ci hanno messo in condizione d’individuare certi problemi che prima erano passati inosservati. L’azienda si era preoccupata, sin dai primi anni, di attuare tutte le misure opportune a prevenire gli infortuni sul lavoro, ma queste, a volte, non bastavano. In alcuni reparti, come la fonderia, tanto per fare un esempio, era obbligatorio l’uso degli scarponi col puntale rigido, ma alcuni operai si facevano rilasciare un certificato medico secondo il quale l’uso dello scarpone rigido era controindicato per la loro salute. Più di una volta per colpa di quel certificato medico ci scappò il piede maciullato da un blocco di acciaio o bruciato dal metallo fuso. C’erano inoltre le malattie professionali, come la silicosi, che si contraeva principalmente in fonderia. Anche in questo caso era obbligatorio l’uso di una maschera speciale, ma molti operai non la usavano mai. Per ovviare a questi inconvenienti, appena possibile, vennero adottate nuove apparecchiature atte ad evitare il diffondersi della polvere che provoca la malattia»[20].
Quello della sicurezza sul posto di lavoro era uno dei temi ricorrenti nel sindacalismo legnanese di questi anni. Gli infortuni erano infatti numerosissimi, soprattutto nelle fonderie, negli stabilimenti meccanici e nell’edilizia. Una serie di casi, tutti occorsi nel giro di pochi giorni, venne descritta in una sorta di mini-inchiesta pubblicata nel 1951 dalla «Gazzetta di Legnano». All’Officina meccanica Mario Pensotti l’aggiustatore Carlo Cozzi – si legge sul giornale a diffusione locale – cadde da una impalcatura ceduta «mentre lavora[va] al montaggio di una caldaia». Ricoverato all’ospedale ne ebbe per 20 giorni. Contusione e distorsione ad un braccio, invece, per l’imbozzimatore Enrico Biaggi alla De Angeli Frua: la manica della giacca si impigliò in un ingranaggio della macchina, provocando l’incidente. Il lavoratore ne ebbe per 10 giorni. All’ospedale di Legnano dovette invece essere effettuata l’asportazione di un’unghia al cardatore Luigi Noè della De Angeli Frua, mentre l’operaio Carlo Pastori della Cantoni, riparando un telaio, si chiuse la mano tra due parti della macchina, «producendosi una profonda ferita alla mano»: anche per lui si dovette ricorrere alle cure mediche e la ferita fu giudicata guaribile in 10 giorni. Incidente simile capitò all’operaio Roberto Diotti dell’officina meccanica Geronzio Rabuffetti; il fucinatore Andrea Colombo, in forza alla Tosi, ricevette invece una scheggia nell’occhio «mentre cerca[va] di spaccare una tavola di legno con lo scalpello». Il giornale riferiva altre vicende, fra cui quella di un muratore di una piccola impresa edile, di un manovale dell’officina Borroni e di un operaio della Spa Fabbriche Fiammiferi e Affini di Legnano[21].
Pur nella complessità delle vicende economiche della stagione della ‘ricostruzione’ (si pensi alle fortune, o meno, delle singole aziende, alle questioni relative al reperimento del capitale, alla concorrenza e all’acquisizione di nuovi mercati, ai rapporti tra imprese ed enti locali, alla necessità di creare un punto di incontro tra gli imprenditori, alle vicende sindacali…) si può affermare che, tra gli anni Quaranta e i Cinquanta, Legnano stava progressivamente accentuando la sua connotazione di città-fabbrica. Persino dal punto di vista della ‘percezione ambientale’ Legnano aveva ormai tutti gli elementi per essere assimilata ad uno stabilimento a cielo aperto. La città era segnata dai ritmi del lavoro, scanditi dalle sirene che indicavano l’orario di inizio dei turni, la pausa di mezzogiorno con il pranzo spesso consumato nelle mense aziendali, il termine della giornata con l’esodo di massa di operai e impiegati verso le abitazioni che trovavano posto tra
un’officina e una ciminiera. Oppure, per i molti pendolari, la bicicletta e il treno erano i mezzi di trasporto più frequenti verso i paesi limitrofi.
Accanto agli stabilimenti cresceva il numero delle case aziendali (le prime risalivano addirittura alla fine dell’Ottocento): alle più datate, realizzate in Via Cairoli dalla Tosi, in Via Rossini dalla Manifattura, in Via Volta dalla Cantoni, in via XX Settembre dalla Società Automobili Motori, si erano aggiunte altre abitazioni edificate dalla stessa Tosi, dai cotonifici Cantoni, Dell’Acqua e De Angeli Frua e da altre ditte minori. Alle case si affiancarono – sempre su iniziativa di varie ditte – asili per l’infanzia, spacci, convitti, dopolavori, strutture per lo sport o per la formazione professionale interna. A questi aspetti faceva certamente riscontro un progressivo deterioramento dell’ambiente naturale: il cielo di Legnano si colorava, ogni giorno, con le striature nere del fumo prodotto dalle ciminiere, mentre il fiume Olona era tra i più inquinati d’Europa: la schiuma e i coloranti prodotti dalle cartiere della Valle Olona e dai cotonifici cittadini compromisero l’equilibrio naturale del corso d’acqua, sulle cui rive, nel XIX u era sorta l’industria tessile.
Analogamente, il cosiddetto ‘paternalismo’ risultò un elemento caratterizzante della città-fabbrica. Esso era costituito da una serie di iniziative volte a legare il lavoratore alla società che lo aveva assunto, e che avrebbe potuto, un domani, dar lavoro anche ai suoi figli. L’azienda in tanti casi era in grado di fornire un’abitazione dignitosa, un posto-letto per le operaie pendolari o immigrate, mensa e cure mediche praticamente gratuite, scuole interne per i figli minori, formazione professionale per migliorare la propria qualifica (e, quindi, il livello salariale). Per non parlare del circolo bocciofilo, del torneo di calcio, delle gite ‘fuori porta’, dei regali ai figli dei dipendenti in occasione delle festività natalizie, delle vacanze estive nelle colonie marine o nei campeggi montani…
Alcuni esempi possono essere emblematici su questo versante. Così, per esempio, la ditta De Angeli Frua organizzò per i dipendenti una gita all’Alpe del Viceré nel giugno del 1947. La giornata domenicale cominciò con l’appuntamento, poco dopo l’alba, alla stazione ferroviaria. In treno si doveva raggiungere la cittadina di Erba e poi, a piedi, salire verso la meta prefissata:
«A mezzogiorno – si legge in un resoconto giornalistico – veniva celebrata la S. Messa, poi assalto alle cibarie. L’appetito, dopo la movimentata marcia, non poteva mancare e il pacco viveri, offerto dalla ditta, in un batter d’occhio veniva divorato. Non poco è stato il lavoro dell’addetto alla cantina autotrasportata fin lassù»[22].
Dal canto loro Carlo e Piera Mocchetti festeggiarono le proprie nozze d’oro il 20 giugno 1947 – oltre che con l’inaugurazione della casa del Cottolengo, come già abbiamo detto – con una grande festa cui invitarono i dipendenti della ditta tessile di famiglia (che contava 700 telai). Gli imprenditori parteciparono ad una Messa con le maestranze, alla quale seguì la premiazione dei lavoratori più anziani. Quindi giunse il momento del rinfresco, con tanto di discorso tenuto dal figlio, Pino Mocchetti «che diceva – riferisce la stampa – brevi commosse parole ai convenuti, esaltando il lavoro come l’unico mezzo di ricostruzione della patria e la collaborazione tra industriali e operai come unica sorgente di benessere sociale e di pace». Nel pomeriggio, dopo il pranzo per tutti i convenuti, vennero organizzati giochi per i bambini, svaghi per gli adulti, per chiudere infine con la recita della Filodrammatica interna[23]. Così, quando tre mesi più tardi furono lanciati due ordigni dinamitardi contro la villa Mocchetti di corso Sempione ad opera di sconosciuti (fortunatamente senza causare vittime né gravi danni materiali), le maestranze scrissero una lettera alla Camera del Lavoro, che affermava testualmente:
«Si rende noto che oggi le maestranze della Tessitura Mocchetti hanno dato dimostrazione di attaccamento ai suoi principali, deprecando l’ignobile attentato di ieri sera, da parte di ignoti delinquenti, verso coloro che hanno dato prova di tanta benevolenza verso i lavoratori e verso la società sofferente, rallegrandosi per lo scampato pericolo, che dimostra che non manchi il dito di Dio a difesa dei buoni»[24].
Allo stesso modo nel febbraio 1951, quando furono inaugurate nuove abitazioni aziendali in Via Cimarosa alla presenza di numerose personalità, fra le quali il deputato Luigi Clerici e il prevosto mons. Cappelletti, prese la parola anche un operaio che plaudì «all’iniziativa della Franco Tosi di realizzare nuove case per i propri dipendenti, esprimendo la speranza che l’azienda continui la sua opera intesa ad assicurare benessere e tranquillità ai propri dipendenti»[25]. Sono evidenti le ambigue implicazioni sindacali e politiche di questi comportamenti:
da una parte, infatti, era innegabile che i lavoratori dipendenti traessero vantaggio da quest’ampia gamma di aiuti e servizi; dall’altra, però, questo significava essere spinti a rinunciare alle proprie richieste salariali o contrattuali più avanzate, contenendo le iniziative sindacali. Si puntava inoltre a cristallizzare i rapporti sociali: nell’ottica del paternalismo di quegli anni l’operaio doveva necessariamente rimanere su un piano inferiore, manifestando rispetto e obbedienza verso colui che non poteva non volere il suo bene. Era questo un atteggiamento comunque ancora relativamente soft rispetto alle iniziative più radicali di controllo politico (e persino dei sentimenti religiosi, della vita privata e delle abitudini sessuali) che in molte fabbriche italiane – a cominciare dalla FIAT – vennero attuate nel corso degli anni Cinquanta.
[1] Per tutti questi aspetti si rinvia di nuovo a G. Vecchio – N. Bigatti – A. Centinaio, Giorni di guerra cit.
[2] Sugli anni della ricostruzione economica cfr. P. Galea, Tra ricostruzione e sviluppo, in Il Novecento economico italiano. Dalla grande guerra al “miracolo economico” (1914-1962), Monduzzi, Bologna 1997, pp. 201-304. Per un quadro generale sull’economia nazionale nel dopoguerra si vedano anche: A. Bagnasco, Tre Italie. La problematica territoriale dello sviluppo italiano, Il Mulino, Bologna 1977; M. Salvati, Economia e politica in Italia dal dopoguerra ad oggi, Garzanti, Milano 1984; G. Sapelli, L’Italia inafferrabile. Conflitti, sviluppo, dissociazione dagli anni Cinquanta a oggi, Marsilio, Venezia 1989; L’economia italiana dal 1945 a oggi, a cura di A. Graziani, Il Mulino, Bologna 1989; N. Colajanni, L’economia italiana dal dopoguerra a oggi, Sperling & Kupfer, Milano 1990; V. Zamagni, Dalla Periferia al Centro. La seconda rinascita economica dell’Italia, 1861-1990, Il Mulino, Bologna 1993; G. Gualerni, Storia dell’Italia industriale. Dall’Unità alla Seconda Repubblica, Etaslibri, Milano 1994.
[3] P. Macchione, L’oro e il ferro. Storia della Franco Tosi, Franco Angeli, Milano 1987. Sulla stessa azienda cfr. anche: Franco Tosi Società per Azioni, 1876-1956, Unione Tipografica, Legnano-Milano 1956; G. Álvarez García, Quelli della Tosi. Storia di un’azienda, Scheiwiller, Legnano-Milano 1985.
[4] P. Macchione, L’oro e il ferro cit., p. 507, n. 5.
[5] L. Dell’Acqua, Il Comprensorio Ticino-Olona e il Cotonificio Cantoni, tesi di laurea, Facoltà di Lettere e filosofia, Università degli Studi di Milano, a.a. 1980/81, pp. 98-102.
[6] G.M. Longoni, Legnano e la sua industria, in Legnano e la sua Banca cit., pp. 237-238.
[7] Ibid., pp. 237-240.
[8] P. Cafaro, La Banca, in Legnano e la sua Banca cit., pp. 181-187.
[9] Dieci anni di attività. 1945-1955, Associazione Legnanese dell’Industria, Legnano 1955, pp. 11-15.
[10] Artigianato, in «Luce», 1° febbraio 1946.
[11] Il 1° convegno di zona della Camera del Lavoro di Legnano, in «Il Carroccio», 2 agosto 1946.
[12] Intervento alla Assemblea delle ACLI della Zona di Legnano, in «Il Carroccio», 15 febbraio 1948.
[13] La prima Scuola Sindacale delle ACLI legnanesi, in «Luce», 25 ottobre 1946.
[14] Alla Franco Tosi elezioni commissione interna sindacale, in «Il Carroccio», 4 aprile 1948.
[15] Una vertenza sindacale tra liberi lavoratori e ditta F. Tosi, in «La Prealpina», 7 novembre 1950.
[16] Agitazioni in corso negli stabilimenti Bernocchi, Cantoni, De Angeli Frua e Cantoni, in «Luce», 23 marzo 1951.
[17] Le sopraffazioni comuniste alla Franco Tosi e la tolleranza della direzione dello stabilimento, ibid.
[18] L’ordine sarà garantito contro i tentativi di violenza, in «Luce», 4 maggio 1951.
[19] G. Álvarez García, Quelli della Tosi cit., pp. 182-183. L’intervistato è indicato con la sola iniziale del cognome.
[20] Ibid., pp. 184-185.
[21] Infortuni sul lavoro, in «Gazzetta di Legnano», 8 novembre 1951.
[22] Erba: nella pineta coi dipendenti della ditta De Angeli Frua, in «Luce», 15 giugno 1947.
[23] Festa del lavoro e della solidarietà alla ditta Mocchetti, in «Luce», 27 giugno 1947.
[24] Bombe alla villa Mocchetti, in «Il Carroccio», 5 ottobre 1947.
[25] Imponente complesso edilizio per i lavoratori inaugurato dall’on. Clerici, in «Luce», 9 febbraio 1951.